Lunedì mattina, piove. Al bar ti hanno servito un caffè troppo caldo e una brioche troppo molle. Sono le 9.00. Arrivi in ufficio assonnato, infastidito dal traffico cittadino e dal clima freddo e umido.

Ti siedi alla scrivania e hai un flash: scade oggi il termine per consegnare quella relazione che ti hanno chiesto due settimane fa, che hai iniziato almeno dieci volte e altrettante volte hai interrotto, preso dal vortice di cose da fare.

Non ne hai voglia. Per niente. E’ lunedì! Ma alle 14.00 hai la riunione di presentazione…è da fare.

Rassegnati e inizia! Il tempo stringe. Sono le 9.15. 

Se ti ricordi in quel bellissimo corso di Time Management che hai fatto tempo fa consigliavano di tenere slot di 45 minuti ad alta concentrazione per terminare un task. Sarà vero? E perchè 45 minuti…? Vabbè, adesso non hai tempo: prova. Alle 10.00 devi concludere questo lavoro.

Bene, deciso, metti il timer va, sia mai che ti sfuggano i 45 minuti…

Passano dieci minuti. Hai appena ripreso le fila della relazione. Lo smartphone vibra. E’ una notifica. Ignorala. Vibra di nuovo. Guardi di sfuggita lo schermo, è una notifica del tuo calendario, ti ricorda un’altra riunione alle 11.00. Bene, già te la ricordavi. Puoi rimetterti a lavorare ma…ora che ci pensi, anche per la riunione delle 11.00 devi presentare un report. L’hai fatto? Sì, l’hai fatto.
Puoi rimetterti a lavorare.

Passano cinque minuti. Irrompe in ufficio Luca, ufficio acquisti. Vorresti incenerirlo. Ti ha interrotto per una scemenza. Ma – si sa – il lavoro in team implica disponibilità e collaborazione. Con il tuo miglior sorriso gli rispondi che sei impegnato e che alle 11.00 andrai in ufficio da lui per prendere in mano la sua questione. Adesso – ribadisci, perchè non si schioda – sei impegnato. Hai bisogno di concentrazione. Il tempo corre…Luca parla. Sei impegnato. IMPEGNATO!!

Si sono fatte le 9.45.

Ti ributti sulla relazione. Squilla il telefono. Ignoralo. Squilla di nuovo. Pazienza. Passa qualche minuto, la porta si apre: entra Gianni (amministrazione). Faccia accigliata, “Perchè non rispondi?”, esordisce. E tu, memore di quel magnifico workshop di Mindfulness a cui il capo ha spedito tutti il mese scorso, inizi a respirare. E respiro dopo respiro si fanno le 10.00…

Ti suona familiare?

Che cosa succede, oggi, negli ambienti di lavoro? Cosa succede nonostante la perfetta organizzazione di tempi e metodi, l’esistenza di tecnologia che dovrebbe essere a nostro supporto, il mito della produttività?
Succede che, mai come oggi, siamo improduttivi. E lo siamo per due ragioni.

La prima è nota, ed è sotto gli occhi di tutti. Ci siamo creati ambienti di lavoro in cui è impossibile essere efficienti, sia perchè non usiamo bene la tecnologia, sia perchè non discipliniamo le relazioni con gli altri (vedi più avanti, quando parliamo di interruzioni). 

La seconda è quella che ignoriamo e che, invece, dovrebbe essere il punto di partenza.
Siamo improduttivi perchè la mente umana tende all’improduttività. Meglio: la mente umana tende a essere distratta per natura. 

La distrazione è naturale. Mentre l’attenzione è una conquista evolutiva.

Nel saggio “Distracted mind. Cervelli antichi in un mondo ipertecnologizzato” Gazzaley e Rosen espongono una tesi affascinante quanto confortante. Sì, perchè è confortante sapere che non è colpa tua: è la tua mente che, per natura, si distrae.
Citando i due autori “L’attenzione non è regalata. La consapevolezza va guidata, allenata, mantenuta. C’è voluto uno sforzo evolutivo per conquistare l’attenzione. Mentre essere distratti non richiede alcun impegno, alcuno sforzo. Lo sei e basta. La mente distratta è di natura. Il controllo cognitivo, la cosiddetta “concentrazione”, è una progressiva conquista di tipo evolutivo. È il controllo cognitivo che ci ha permesso di non starcene spaparanzati in una caverna in attesa degli eventi, ma bensì uscirne e nell’arco di milioni di anni giungere dove siamo arrivati.”

Che dramma. Non solo siamo distratti per natura, ma siamo stati così stupidi e ottusi da circondarci di tecnologia ad alto tasso di distrazione. Sì, perchè lo smartphone che abbiamo sempre in mano, quasi fosse un prolungamento del nostro essere, è la nostra moderna “caverna”. Lì ci rintaniamo perdendo la cognizione del tempo, ricercando bulimicamente informazioni, condivisioni, commenti e cambiamenti di stato, godendo delle rapidissime scariche di dopamina  per ogni like che riceviamo. 

Quanto ci costa distrarci?

Gloria Mark è una ricercatrice nel Dipartimento di Informatica all’Università della California. Con un’équipe di colleghi ha compiuto una serie di studi sul costo nascosto delle interruzioni.

In media, secondo gli studi compiuti, sono necessari circa 23 minuti e 15 secondi per riconcentrarsi completamente su un’attività dopo aver subito una distrazione. Ma il costo non è solo in termini di tempo. Essere interrotti ci fa pagare un prezzo psicologico, spesso molto alto.

Sempre la Mark ha condotto una serie di esperimenti sul tema. In uno di questi ha chiesto a delle persone di rispondere ad un set di email. Le ha divise in due gruppi: il primo gruppo ha lavorato indisturbato, l’altro ha subito le tipiche interruzioni di un contesto lavorativo (telefonate, visite di colleghi ecc.).

Misurando i livelli di stress, utilizzando uno strumento in uso alla NASA, è emerso che le persone interrotte presentavano livelli di frustrazione, sforzo mentale e sensazione di essere schiavi del tempo molto più alti rispetto alle persone che non venivano interrotte. Ed eccolo qui, il costo: inefficienza lavorativa, stress e ansia. Un bel mix. 

Cosa possiamo fare?

E qui arriva il bello. Sì, perchè essere chiamati a dare un’opinione su questi temi è cosa ardua. Così come è arduo impostare un intervento di consulenza: qui è necessario scardinare, una ad una, le abitudini di una persona, di un gruppo, di un’intera azienda, di un’intera società. Arduo, ribadiamo.

E’ un lavoro immane. Ma a noi piacciono le sfide. Sì, perchè è una sfida proporre ad un’organizzazione la modifica di un modello comportamentale che non è solo tipico dell’organizzazione stessa: riguarda l’intero contesto sociale.

Primo passo: informare. Dare informazioni corrette, sane, non finalizzate ad altro che non sia l’informazione in sé e per sé.
L’informazione sana genera consapevolezza, e la consapevolezza genera pensieri lucidi e azioni razionali.

Secondo passo: generare opzioni per prospettare un cambiamento di abitudini. Il modello comportamentale su cui si reggono molte organizzazioni che visitiamo ci sembra piatto, bidimensionale, basato sull’impulsività, sulla reattività, sul mito del multitasking. Per modificare questo modello comportamentale dobbiamo individuare i suoi “meccanismi di ricompensa” e sostituirli. Uno ad uno.

Distrarsi è bellissimo, è facile ed è anche molto comodo. Sì, perchè è molto comodo sbraitare contro i nostri colleghi – che magari non ci hanno disturbato – perchè non abbiamo finito in tempo un report a causa delle nostre auto-distrazioni. E’ molto comodo invocare a gran voce più aiuto,  più collaborazione, dire che “non abbiamo risorse, siamo in pochi”, “non c’è budget”, “non c’è tempo”. Molto più scomodo e complesso ammettere che le abitudini del sistema – quindi non le mie, non le tue, ma le nostre – ci trascinano giorno dopo giorno nel baratro dell’inefficienza, dell’improduttività, dello stress e dell’affaticamento mentale. 

Terzo passo: parlarne e creare una comunità di pratica. I modelli comportamentali, anche all’interno di una singola organizzazione, risentono della dittatura delle abitudini. Se vogliamo lavorare ad un modello comportamentale che privilegi l’attenzione al posto della distrazione possiamo agire in molti modi.
A noi è piace fare questa riflessione: fissare la nostra attenzione su qualcosa implica una scelta (e non a caso si parla di attenzione selettiva). Essere attenti, quindi, vuol dire essere in grado di scegliere e di assumersi le responsabilità della nostra scelta. Ci sembra un’abilità essenziale per chiunque: a maggior ragione per chi guida un gruppo o un’intera azienda.

Perchè, allora, nei corsi manageriali non si insegna ai leader a usare la propria attenzione?
Perchè il tema non è entrato, a pieno titolo, nella più prestigiose Business School, quelle che sfornano i leader di domani?
Forse l’attuale panorama dell’alta formazione manageriale, dei percorsi Executive, delle academy blasonate non considera che, se insegniamo alle persone ad usare la propria mente, diamo loro veri strumenti, vera autonomia, vere competenze?
Forse è più comodo continuare a vendere costi di gestione del tempo e della produttività, producendo un comodissimo effetto placebo che soddisfa tutti (soprattutto chi tiene questi corsi)?
Ai posteri l’ardua sentenza. 

“Tutti sanno cosa sia l’attenzione.
È l’atto con cui la mente prende possesso in forma vivida e chiara di uno tra i tanti oggetti e i tanti treni di pensieri che sembrano simultaneamente possibili…Essa implica l’abbandono di alcune cose, per occuparsi efficacemente di altre” (William James, 1980)

Vi auguriamo di iniziare a occuparvi di alcune cose, poche cose. Efficacemente.