“Rispondo solo a questa email…”, “Guardo solo un attimo cos’è successo su Linkedin”, “Controllo un momento l’andamento del sito, non si sa mai” e l’immancabile “Approfitto di questi giorni per mettermi avanti. Se non lo faccio ora, quando lo faccio?”.

Alzi la mano chi non ha mai pensato (e agito) nel modo sopra descritto. E chi non si è mai giustificato pensando e dicendo a se stesso e agli altri che è necessario, che non si può fare altrimenti e che “oggi i tempi sono cambiati”.

Lavorare durante un periodo che ci siamo presi come “vacanza” può essere una necessità solo in un caso su mille (statistica assolutamente personale e non validata da dai scientifici, ma probabilmente molto vicina al reale). Un po’ perchè avere scadenze continue ci fa attivare mentalmente e fisicamente, un po’ per sensi di colpa, un po’ per cattiva organizzazione succede che il tempo dedicato davvero alla “vacanza” sia sempre più ridotto. Ma perchè lo facciamo? Perchè, dopo aver invocato a gran voce il periodo di vacanza lo riempiamo di impegni e scadenze, tradendo letteralmente il significato della parola “vacanza”, che indica uno spazio concavo vitale, per la nostra mente, per rigenerarsi?

Nel mondo latino questo tempo veniva definito otium: una condizione complementare al negotium, inteso come attività politica. Durante il periodo di otium il cittadino romano era invitato a dedicarsi allo spirito e alla lettura, attività che lo avrebbero rigenerato e arricchito in vista di futuri impegni a favore della città. Lotium, quindi, era inteso come spazio per la mente: un’occasione di vera e propria rigenerazione cerebrale, per mettere poi questa mente “rigenerata” al servizio dei più. L’otium, se ben svolto, aveva una ricaduta sociale: era una responsabilità collettiva, oltre che del singolo.

Facciamo un salto in avanti nel tempo e proiettiamoci nelle nostre vacanze, che potrebbero essere momenti di otium dal ruolo professionale. Uno spazio libero da quei vincoli gravosi di tempi, impegni frenetici, responsabilità che ci impediscono, letteralmente, di pensare. Eppure ecco che quando, finalmente, potremmo goderci quell’otium, facciamo di tutto per riempire quello spazio concavo di abitudini che fagocitano tempo e non ci danno valore aggiunto: controlliamo email, notifiche, like, numero di followers e intanto la nostra mente continua a girare agli stessi ritmi forsennati di sempre. Del resto è normale: i tempi classici delle ferie sono di 7-8 giorni, troppo pochi per consentire alla nostra mente di comprendere che si trova in vacanza. Circa metà di quei giorni risentono di una sorta di “inerzia” comportamentale: continuiamo a comportarci come sempre, ci svegliamo più o meno alla stessa ora, agiamo con lo stesso ritmo quotidiano. E’ normale: ci comportiamo secondo le abitudini che abbiamo consolidato. Ed è irrealistico pensare che le abitudini si possano scardinare da un giorno all’altro, come se si spegnesse un interruttore, solo perchè “siamo in vacanza”.

Che cos’è un’abitudine?

Lally e Gardner nel 2013 definiscono abitudini “quelle risposte comportamentali automatiche ad uno stimolo, sviluppate attraverso la ripetizione del comportamento in contesti coerenti tra loro” (Lally, P., & Gardner, B.  Promoting habit formation, Health Psychology Review, 7, 137-158).

Sempre Gardner sostiene che, di fronte alla volontà, le abitudini vincono. Affermazione che sembra confermata da uno studio del 2016 pubblicato su Neuron: le abitudini “abitano” una zona specifica nel nostro cervello, la zona dei gangli della base. I gangli della base sembrano coinvolti principalmente nella selezione delle azioni, ovvero contribuiscono a decidere quale tra i possibili comportamenti eseguire in un dato momento.

Quando si forma un’abitudine questa si “fissa” nei gangli della base, lasciando una sorta di impronta in alcuni circuiti cerebrali: si crea, in questo modo, un apprendimento automatico che, “fisicamente”, ha le sue tracce in un’area ancora poco conosciuta ai più (ma coinvolta, pare, anche in meccanismi legati alla motivazione e all’apprendimento).

Una nota importante: le abitudini sono vitali per noi e una retorica sbagliata le ha invece declassate ad elemento ostacolante e negativo. Senza abitudini non potremmo sopravvivere né svolgere le nostre attività quotidiane, neanche quelle più elementari. Di per sé non esistono cattive abitudini: esistono abitudini che, nel contesto in cui viviamo o lavoriamo, non sono funzionali, perchè magari si scontrano con le abitudini altrui (del partner, degli amici, dei colleghi, dell’azienda nel suo complesso).

Spezzare le abitudini, funzionali o meno che siano, solo perchè siamo “in vacanza” è un’utopia: così come è un’utopia pensare che, in azienda, le persone “cambino comportamento” quando rivestono un nuovo ruolo, oppure quando cambia l’organizzazione.

Come si forma un’abitudine?

Nel 1999 un pool di ricercatori del MIT ha codificato il ciclo dell’abitudine (Habit hoop). 

Conoscere l’Habit hoop sarebbe fondamentale per tutti noi: ci darebbe maggiore consapevolezza e ci renderebbe, tutto sommato, più indulgenti nei confronti dei nostri simili. Per maggiori informazioni ecco la bibliografia relativa: Mandar, S., Yasuo, K., Christopher, I.C., Viveka, H., & Ann, M.G. (1999), Building Neural Representations of Habits, Science, 286, 1745-1749.

All’inizio dell’abitudine c’è un segnale. Il segnalo è uno stimolo, interno o esterno, sensoriale o emotivo, che attiva il nostro cervello. In questo momento il cervello è ancora vigile e sta scandagliando i suoi “archivi” alla ricerca del comportamento abitudinario più idoneo per rispondere a quello stimolo. Trovato il comportamento c’è la routine, ossia lo svolgimento dell’azione che costituisce quella specifica abitudine. Ho detto azione, ma può trattarsi anche di un pensiero o di un’emozione: si tratta comunque di un elemento che lascia la sua “impronta” nel nostro cervello con un unico scopo, la ricerca della gratificazione.

Le abitudini creano bisogni neurologici, legati alle più elementari ricompense: cercare il piacere, evitare il dolore, risparmiare fatica. Ricompense che possono essere anche molto sofisticate ma che, scava scava, alla fine arrivano qui. Et voilà, l’abitudine è servita!

Vacanze, che stress!

Le abitudini si possono gestire, modificare, sostituire ma non eliminare. Possiamo quindi fare tantissimo se proprio ci rendiamo conto che un’abitudine non è funzionale.

Tuttavia, quando siamo stanchi o sotto stress, il nostro cervello lavora per risparmiare energia e quindi a maggior ragione ci fa agire secondo le abitudini consolidate.

Ironicamente potremmo allora pensare che le vacanze siano fonte di stress, se ci portano a ripetere le abitudini “divora-tempo” di tutti i giorni. E in effetti è così: come qualsiasi cambiamento nella routine la vacanza è uno stress che ciascuno di noi affronta con le strategie che, nel tempo, ha consolidato – guarda caso, altre abitudini.

Inutile cercare di contrastare uno dei meccanismi più radicati e – ribadisco – funzionali che abbiamo. Quello che possiamo fare è studiare, sempre più e sempre meglio, come funzioniamo e come possiamo utilizzare questi meccanismi a nostro vantaggio.

Del resto “E’ il cervello, bellezza. E tu non ci puoi fare niente. Niente”.